martedì 18 maggio 2010

Storia dell'Ajinomoto-Insud a Manfredonia - L'inizio della fine

I motivi.

Come ho accennato prima, la fabbrica di Manfredonia era, per i giapponesi, il primo piede posto sul suolo europeo, allo scopo di stanziarsi, di studiare il mercato, di conoscere l’ambiente umano e sociale, di apprendere le leggi locali.

In Giappone ed in Oriente, le fabbriche Ajinomoto, oltre al glutammato, producevano anche aminoacidi e prodotti derivati dagli aminoacidi, mentre, nei loro laboratori, i chimici ne scoprivano e isolavano sempre nuovi tipi. Producevano anche diversi additivi alimentari che facevano parte, da millenni, del gusto e dell’alimentazione orientale.

Ma tutti i loro studi e le loro ricerche indicavano e prevedevano che la maggior parte degli aminoacidi sarebbero diventati, sempre di più, materia prima per le industrie chimiche farmaceutiche, per la produzione degli integratori alimentari, per la produzione di additivi e perfino per la cosmetica ed i prodotti di bellezza. E le più grosse ed importanti industrie del ramo e farmaceutiche, oltre agli USA, si trovavano in Europa.

Erano venuti in Italia associandosi alle Partecipazioni Statali con il programma di proporre poi ai partners, al momento opportuno, sempre nuovi investimenti, nuove produzioni e nuovi mercati: il partner ora si ritirava e le P.S. erano disinteressate.

Scoprirono che l’Italia, rispetto alle proprie aspettative, era un paese economicamente e politicamente instabile, dove era difficile, molto difficile, fare un programma pluriennale di investimenti e di produzioni in quanto il costo del lavoro, per esempio, era soggetto a forti sbalzi e vi erano molte ingerenze e perturbazioni da parte di ambienti esterni alla fabbrica (leggi i Sindacati).

Constatarono anche che, contrariamente a quel che si propagandava nelle sedi internazionali, non si facilitava l’investimento di capitali esteri se, poi, si ponevano limiti, lacci e lacciuoli per il ritorno delle rendite e degli utili all’estero e, perfino, per il pagamento dei debiti verso i creditori esteri.

Si era ormai nel pieno degli anni della cosiddetta “strategia del terrore”, ricordati in seguito come “anni di piombo”, con attentati quasi giornalieri verso politici e imprenditori, contro sindacalisti, giornalisti e docenti universitari, con incidenti e rivolte nelle università e nelle scuole superiori, continuate poi per strada, con cariche di polizia e qualche sparo ad altezza uomo, il tutto ampiamente riportato ed illustrato sulla stampa, anche estera.

A giugno del 1976, poi, ci furono in Italia le elezioni politiche che, per la prima volta, dettero ai Comunisti italiani oltre il 34 per cento dei suffragi.

Alcuni giapponesi ci chiesero:

- «Ed ora, che succederà in Italia?» - e, a loro, non sembrava credibile la nostra risposta che niente sarebbe cambiato. Si era in piena Guerra fredda e il minaccioso Gigante Sovietico, che per noi era qualcosa di lontano, loro, i giapponesi, l’avevano al di là del proprio confine ed era sempre minaccioso, non mostrandosi mai soddisfatto delle poche isole più settentrionali dell’arcipelago, sottratte all’Impero giapponese dopo la seconda Guerra Mondiale.

Inoltre, nella memoria elefantiaca della casa madre a Tokyo, era sempre presente la brutta fine della loro fabbrica della California durante la stessa guerra, e nessuno avrebbe voluto essere ricordato per la perdita di un’altra fabbrica in Italia.

Il Governo giapponese, tramite l’apposito Ministero per l’Industria, era sempre presente nella vita aziendale, si informava dei programmi industriali, dei nuovi investimenti ed era sempre pronto ad appoggiare logisticamente le imprese con notizie, campagne promozionali e ricerche di mercato, facilitava l’incontro fra imprenditori con l’associazionismo ma, soprattutto, provocando gli incontri per eventuali partnerships.

Nessun Ministero italiano, tranne il Fisco, si era occupato di informarsi della fabbrica di Manfredonia. Le Partecipazioni Statali si erano preoccupate solo ed esclusivamente della amministrazione contabile, non avevano mai chiesto un piano pluriennale industriale di investimenti e programmazione.

Quando i giapponesi lo presentarono al Dott. Cipriani, questi si era ormai già convinto che l’unica soluzione praticabile dalla INSUD era quella di uscire dalla Società.

Attenzione però. Il motivo non era dovuto alla sfiducia nei confronti dei programmi di investimento proposti, anche se occorreva del personale tecnico veramente all’altezza per valutarli, che non era presente nella INSUD e non era a disposizione tra l’organico delle Partecipazioni Statali.

Il motivo principale, secondo il Dott. Cipriani, era che i patti para-sociali firmati al momento della fondazione erano sbagliati all’origine, perché avevano lasciato campo libero ai giapponesi di fare tutto ciò che avevano voluto, con l’addebito indiscriminato di costi di personale, di provvigioni, con il controllo pieno della produzione e delle vendite.

Il risultato era stato che, mentre il socio giapponese qualcosina ci aveva cavato fuori dallo stabilimento, in termini di esperienze, di formazione del personale e, perché no, anche di danaro, tra rimborsi spese e provvigioni, il socio italiano ci aveva solo rimesso un bel po’ di soldi, tra capitale iniziale e ripianamento delle perdite.

Lui, viareggino, spiegava:

- «Restare qui solo per fare il pupazzo e continuare a prendere il famoso “cetriolo”? Eh no, ragazzi! Oh via! Mi dispiace, ma questo non sarò io!» -

Per affrontare, a questo punto, un qualsiasi programma di nuovi investimenti, la prima cosa da fare, dunque, sarebbe stata quella di rivedere i patti para-sociali e ridiscuterli: questo significava, oltre a quello che si era già perso, perderci anche la faccia e dover ammettere che si era sbagliato tutto dall’inizio; significava, di conseguenza, additare e denunciare quegli organi EFIM che, all’epoca, avevano accettato quel tipo di accordo.

Significava anche dover poi condividere con i giapponesi, che erano bravissimi e già esperti, una parte delle responsabilità tecniche ed operative sul piano industriale. Meglio lasciar perdere!

Tuttavia, queste considerazioni finali del Dott. Cipriani, le ho apprese solo dopo qualche tempo che la vicenda della fabbrica si era ormai conclusa, anche perché, dalla metà del 1975, aveva assunto la Presidenza di un’altra Società (della SOPAL) a Barletta, pur conservando la firma, abbinata col Direttore giapponese, per i pagamenti e le riscossioni.

Gli preparavo le carte sulla sua scrivania e lui “passava” per le firme ad orari sempre più imprevedibili. Le nostre conversazioni erano sempre e solo telefoniche, ma io non mi ponevo alcun problema, almeno fino a quando, con l’approvazione dell’ultimo Bilancio del 1975, cioè nella prima metà del 1976, si dimise da Direttore e Consigliere di Amministrazione.

Giustamente, prima di andar via, e quindi prima dello scoppio della crisi finale, Cipriani portò con sé, a Barletta, un paio di colleghi amministrativi, disposti a trovare altre collocazioni e avventurarsi in nuove esperienze di lavoro, mentre io, molto ingenuamente, scelsi di rimanere al mio paese.

Non avevo ben compreso la sua frase che, dall’Ajinomoto, lui dovesse ormai solo tirar fuori tutto quello che c’era di buono e che valeva la pena.







La “nuova vita”

L’anno cruciale, dunque, fu il 1976, quello in cui si decise il futuro della fabbrica e dei suoi dipendenti. La decisione della chiusura fu presa a Tokyo, quando i giapponesi erano ormai rimasti unici proprietari della società e quindi, i motivi elencati prima, gli attentati, i comunisti, le leggi restrittive e contraddittorie, oltre all’aumento dei costi ed all’importanza dei sindacati in fabbrica, furono valutati a Tokyo, molto lontano dalla realtà italiana.

Si decise di chiudere la fabbrica nella maniera meno dolorosa, anche rimettendoci qualcosa in termini di capitali e spese ma, soprattutto, si scelsero le persone che avrebbero guidato questa dismissione, insieme al preesistente condirettore di Stabilimento giapponese ed all’Amministratore delegato presente ed in servizio a Milano.

Tra settembre ed ottobre del 1976 vedemmo ritornare in Italia, e stabilirsi a Milano, il dott. Yamada, quello laureato in giurisprudenza che veniva a mangiare alla mensa con me a Roma, e quel piccoletto, il dott. Okada, quello che, da capo reparto, aveva spento il fuoco acceso all’inizio dai chimici italiani e poi, da capo fabbrica, aveva raddoppiato la produzione e raggiunto il record della massima produttività.

Costoro richiamarono in servizio il Rag. Fraschetti ed il Dott. Cappuccio, ex capo dell’Ufficio acquisti e diventato Direttore di stabilimento, anche lui laureato in giurisprudenza.

Noi, naturalmente, non sapevamo nulla della decisione di chiusura presa a Tokyo, non conoscevamo il compito affidato ai due giapponesi richiamati in Italia e men che meno ai due figuri italiani, anch’essi richiamati in servizio. Se qualcuno sapeva tutto ciò taceva, e non necessariamente per complicità con i giapponesi, ma proprio per evitare o, comunque, non provocare incidenti e reazioni inconsulte e inutili nelle maestranze.

Ed infatti, quando entrammo nella stanza del Prof. Signora per porgergli gli auguri, lui si alzò dalla scrivania e ci venne incontro, non per cortesia o altro, ma solo per un moto di imbarazzo, dovendo nasconderci tutto quanto discusso in quella giornata, vale a dire il passaggio alla fase operativa per quanto riguardava appunto la chiusura dello Stabilimento, dopo aver deciso e programmato ogni azione da quel giorno in poi.

Ed a lui, come a Cipriani, non sembrava vero che i dipendenti non si fossero resi conto che si stessero vivendo gli ultimi giorni di attività della fabbrica, che a tutto quanto si stava preparando non ci fossero reazioni, né accenni di protesta o di semplice agitazione.

L’offerta fattami da Cipriani per accettare un’altra posizione di lavoro presso la SOPAL, la nuova Società finanziaria dell’EFIM per le industrie alimentari e simili, mi aveva naturalmente lusingato, e mi ero accorto che il mio rifiuto gli era molto dispiaciuto. Per questa ragione cercai di mantenere un certo contatto, almeno telefonico, anche se, per i suoi continui spostamenti, era molto difficile seguirlo e afferrarlo.

Con le informazioni avute da un ex collega che lo aveva seguito, riuscii a contattarlo a metà dicembre del 1976 e, dopo aver scambiato gli auguri ed i soliti convenevoli, lui mi chiese:

- «Come va laggiù, in fabbrica?» -

Evidentemente non voleva avere notizie sull’andamento industriale, non aveva ormai alcun interesse in questo senso, per cui gli chiesi imbarazzato cosa volesse intendere. E lui:

- «Voglio dire, se l’ambiente è tutto calmo e tranquillo o ci sono agitazioni dei dipendenti, dei sindacati?» -

- «Si,» - ammisi io: - «in verità c’è stata una richiesta di notizie e spiegazioni ai giapponesi, ma questi hanno assicurato che non sarebbe cambiato niente, sul piano industriale e produttivo. Ma, questo, qualche tempo fa, penso due o tre mesi fa. Perché, doveva succedere qualcos’altro?» -

- «No, no! Non necessariamente! Va bene! Meglio così.» -

Queste parole di Cipriani e, naturalmente, quelle quasi simili del Presidente, continuarono a frullarmi in mente per tutto il periodo del Capodanno. Al ritorno, mi accorsi che la stessa cosa era successa al collega Tavano ed insieme, cercammo di pensare a cosa potevamo fare.

Tentammo di dare la sveglia ai nostri sindacalisti ed ai nostri operai per invogliarli a chiedere precise garanzie sulla continuità del lavoro in fabbrica, ma fu un’opera molto difficile perché, per muoversi, loro ci chiedevano prove e documenti sicuri, mentre qualcuno ci tacciava di allarmismo e di vedere lucciole per lanterne.

Devo responsabilmente ammettere che, se solo mi fossi impegnato un poco, qualche prova si sarebbe potuto produrre. Infatti, con la fine dell’anno 1976, doveva cessare definitivamente l’affiliazione della Società alla Intersind, l’associazione sindacale padronale per le imprese a partecipazione statale, per passare eventualmente alla Confindustria. Fu invece rinnovata, anche per l’anno 1977 l’affiliazione Intersind, per essere riconfermata anche dopo le precisazioni e le spiegazioni della componente sindacale, che volle onestamente evidenziare i requisiti per l’affiliazione.

La motivazione del rinnovo fu addebitata all’ignoranza dello straniero per le norme ed i distinguo della burocrazia italiana, e i nostri operai sindacalisti accettarono la spiegazione, anzi la approvarono, in quanto erano ancora indecisi e stavano ancora studiando i due contratti di lavoro, quello per le aziende chimiche parastatali e quello per le aziende private, per vedere eventualmente quale dover scegliere, quale fosse più conveniente per gli operai, come minimi tabellari e normative contrattuali.

Come responsabile amministrativo, dopo le dimissioni di Cipriani, mi recavo spesso a Milano ma, in quel periodo, trovai e mi fabbricai molte scuse per andarci, per vedere cosa stesse succedendo. Riuscii ad apprendere solo che, sia i due giapponesi, che il Rag. Fraschetti e, quando era a Milano, lo stesso Dott. Cappuccio, frequentavano un ufficio milanese diverso dal nostro.

Una volta trovai in ufficio il Presidente Prof. Signora che si informò dei motivi della mia trasferta a Milano. Ci ero andato con la scusa di visitare alcuni clienti morosi, e lui mi incoraggiò a dedicarmi a quella incombenza. A sera, ritornando in Ufficio, tornai dal Presidente con la scusa di relazionare sulla mia missione, ma lo trovai molto spento, distratto e quasi assente con la mente, e non riuscii a formulargli nessuna delle domande preparatemi.

Mi dedicai quindi a pressare la Segretaria dell’ufficio milanese che, oltre ad essere molto riservata, era anche molto spaventata, e solo dopo molte insistenze, fuori dall’ufficio, mi raccontò che, nei giorni precedenti si erano svolti molti incontri dell’intero staff con un noto avvocato milanese ed altri assistenti del suo Studio, e molto spesso si alzava il tono di voce, specie da parte del Dott. Yamada.

Secondo il suo parere, l’argomento sembrava dovesse essere l’ingresso di nuovi partners nella società o, addirittura, la vendita dello stabilimento. Anche il mio amico venditore, quello amico di famiglia del Presidente, tutte le volte che andai a Milano era in giro per l’Europa. Tornavo quindi a Manfredonia con niente di concreto ma molte sensazioni di allarme.

Per distogliere la mente degli impiegati da qualsiasi sospetto di abbandono, Cappuccio iniziò a mostrare ed illustrare a tutti un suo progetto per la completa ristrutturazione dell’Amministrazione, compreso il Magazzino. In verità, quando mi riferì la sua idea, mi raccomandò la riservatezza sull’argomento che voleva condividere solo con me. Non mi fidavo della persona e, comunque, evitavo di dare risposte con la scusa che volevo pensarci su più a lungo.

Poi, l’ultima volta, mi chiamò nel suo ufficio per mostrarmi l’organigramma disegnato, di proprio pugno, da una delle mie collaboratrici nel quale lei stessa era posta al vertice ed io venivo retrocesso al rango di semplice impiegato, perché, come ci tenne a riferirmi: - «Mi ha detto che lei fa tutto il lavoro e tu te ne assumi tutto il merito!» -

Naturalmente non mi bevevo tutto quanto mi diceva, anche se, magari, poteva essere in parte vero che la ragazza mirasse in alto, ma poteva darsi il caso che il furbacchione avesse fatto scrivere l’organigramma sotto dettatura e la ragazza si fosse prestata. Questo perché mi aveva spesso porto dei fogli bianchi con l’invito a stilare la mia proposta. E questa idea mi fu suggerita dall’amico Tavano che, ascoltando quanto gli dicevo, mi confessò che anche lui era stato messo a parte, in via riservatissima ed “esclusiva” dello stesso progetto di ristrutturazione.

L’unico progetto che aveva in mente quella specie di Direttore era quello di spargere zizzania tra noi impiegati amministrativi. Sul piano operativo, si ridussero le vendite ed il fatturato, provocando una nuova crisi finanziaria della Società. Come soluzione provvisoria a questa crisi, mi chiesero di sospendere e ritardare il pagamento dei fornitori per privilegiare ed assolvere al pagamento dei salari e stipendi.

Quando chiesi alla nuova Direzione di Stabilimento, quel Dott. Cappuccio, come si intendesse uscire da quella situazione di insolvibilità, questi mi assicurò che, da parte della Deutsche Ajinomoto, sarebbe arrivata una rimessa di un milione di dollari USA, al più presto.

I fornitori più grossi erano, naturalmente, quelli che ci fornivano le materie prime chimiche ed il gasolio, abituati ad essere pagati puntualmente alla scadenza da tutti i propri clienti, per cui cominciarono a sollecitarmi e a chiedere notizie, solleciti che, puntualmente, riferivo al Direttore, sia giapponese che italiano.

Questi, ad un certo punto, mi assicurò che ci avrebbe parlato lui per rassicurarli, visto che li conosceva bene tutti dalla sua precedente attività di ufficio acquisti. Non so perché ma, dopo il suo intervento, le materie prime cominciarono a ritardare le consegne, mentre qualcuno si negò completamente, rinunciando a fornire materiali, mettendo a disagio la nostra produzione.





L’Agitazione

Il Direttore Cappuccio era ritornato in fabbrica dopo un paio d’anni dal suo licenziamento, ma conosceva bene molti dei nostri sindacalisti e dei nostri operai, sapeva chi erano coloro tra i più rappresentativi ed i più carismatici. Sapeva anche della nostra “politica” di affiancamento e guida morbida dei sindacalisti. Dal suo arrivo, non faceva altro che girare per i reparti e parlare con gli operai, dicendo di voler instaurare un rapporto personale e collaborativo con loro.

C’è da precisare, anche se non c’entra niente, che lui camminava sempre con la pistola ben visibile alla cintola e tutti sapevamo, già da prima, di questa sua abitudine.

Come ho avuto modo di dire prima, del Consiglio di fabbrica faceva parte una persona non proprio affidabile e limpido nei suoi comportamenti; non era un vero sindacalista ma un politicante che era da poco diventato il Segretario del Psiup locale, quello con la grande foto di “Che” Guevara, ma lui non credo sapesse molto di “Che” Guevara, o di Sindacalismo e meno di Di Vittorio.

Si verificò anche, in concomitanza, che presso lo Stabilimento dell’ANIC, all’altro estremo di Manfredonia, si stesse vivendo una fase di agitazione del personale, ma per altri motivi. Infatti a fine settembre 1976 vi era stato uno scoppio in fabbrica con l’espulsione di diverse tonnellate di arsenico che aveva inquinato larghe zone anche del paese.

Era stata fermata la produzione, i lavoratori temevano licenziamenti o cassa integrazione e, per questo motivo, il rappresentante CISL nel nostro Consiglio di fabbrica, il Segretario Provinciale Pasquale Lauriola, fosse sempre più spesso richiesto ed impegnato presso quello stabilimento che presso il nostro, anche per il maggior numero di aderenti CISL. Ed il nostro piccolo capetto era così libero di fare nella nostra fabbrica tutti i danni che poteva, visto che il Direttore Cappuccio lo prese come unico destinatario per le proprie esternazioni.

L’inizio della vertenza aveva, come terminale della protesta, sempre e solo il sistema delle Partecipazioni Statali, che era “fuggito” via. Ci volle, da parte nostra, del bello e del buono nel cercare di convincere i nostri sindacalisti che quelli, una volta fuggiti, ormai non tornavano indietro e, quindi, tanto valeva chiedere, a chi era rimasto, ai giapponesi, cosa avessero intenzione di farne dello Stabilimento.

Quando cominciarono le prime turbolenze con i fornitori di materie prime, cominciarono a muoversi anche i sindacalisti per chiedere assicurazioni sul futuro della fabbrica. Ma i rapporti sindacali presero una piega strana, il Sindacato divenne il primo collaboratore della nuova Direzione: si arrivò a proclamare lo sciopero in fabbrica in contemporanea alla mancanza completa di una delle materie prime, per cui si sarebbe dovuto fermare comunque la produzione.

A margine della crisi con i fornitori, mi sia consentito raccontare l’episodio accaduto con i Direttori dello stabilimento dell’ANIC di Manfredonia che ci forniva soda caustica ed ammoniaca. Non era l’unico nostro fornitore di quelle materie, ma questo lo sapevano anche loro, ma in quella crisi rimase l'unico disposto a discutere sulla possibilità di fornircele.

Nella nostra sala riunioni, dopo una lunga e travagliata discussione tra i responsabili tecnici ed amministrativi dell’ANIC e l’intervento, oltre ai nostri due direttori, anche del nostro Presidente Prof. Signora, l’ANIC acconsentì alla fornitura a condizione che si provvedesse al pronto pagamento alla consegna della merce, precisando che l’autista non avrebbe scaricato una sola goccia di materiale se prima non gli fosse stato consegnato l’assegno bancario, firmato, a saldo e per l’intero ammontare.

Tutti acconsentirono tranne me che, più pratico della cosa, feci osservare che, all’arrivo in fabbrica, l’autocisterna veniva pesata una prima volta carica, poi dopo lo scarico, ripesata per determinare la tara e, quindi, calcolare il peso netto della materia prima scaricata che, moltiplicata per il prezzo unitario concordato, determinava l’esatto ammontare della fornitura.

Dopo vari tentativi per risolvere l’empasse, alla fine il Direttore Amministrativo dell’ANIC, il dott. Bifulco, mio amico personale, disse che avrebbe acconsentito allo scarico della cisterna solo quando avesse avuto la conferma telefonica, da parte mia, che avevo l’assegno bancario firmato, intestato all’ANIC ed in bianco per l’importo, da completare dopo la tara, e questa evenienza si verificò per almeno due o tre casi.

La crisi vera e propria iniziò, più o meno, a marzo del 1977 con gli scioperi, e da subito si incominciò a parlare di “occupare la fabbrica” da parte delle maestranze. Cercando di andare all’origine dell’idea di occupare la fabbrica, tutto conduceva ad uno specifico “invito” partito dal Direttore Cappuccio: non ci piaceva una soluzione del genere, ancor meno se proveniva dal Direttore di Stabilimento.

Stessa sensazione, per fortuna, venne ad alcuni più esperti sindacalisti per i quali, comunque, il Direttore era il rappresentante della proprietà e, se consigliava l’occupazione subito, agiva nell’interesse di questi, sebbene assicurasse del contrario. Dai nostri giapponesi veniva solo una formale assicurazione che stessero lavorando per noi.

Dopo gli scioperi e le Assemblee di fabbrica, si ricorse ad altre manifestazioni, anche esterne al recinto dello stabilimento, per coinvolgere e far intervenire le autorità amministrative e gli uomini politici e tutti, a parole, ci assicurarono la propria solidarietà ed il proprio fattivo interessamento.

Parlando tra noi, quelli che eravamo le figure apicali, i quadri dello stabilimento, unanimemente, scegliemmo che saremmo rimasti al fianco delle maestranze. Questo per vari motivi personali e magari diversi dall’uno all’altro, ma tutti eravamo convinti che la fabbrica potesse salvarsi e rimanere aperta, magari passando di proprietà, perché, come struttura aziendale, la ritenevamo valida ed in grado di produrre utili.

Per gentile concessione del Rag. Michele Brunetti